lunedì 31 gennaio 2011

ADDIO ALLA PLASTICA?

Finalmente. È il gennaio 2011 e l’Italia sembra pronta a redimersi dallo shopper di plastica. È una piccola rivoluzione il divieto della produzione e commercializzazione dei cosiddetti “sacchetti da asporto finale” (negozio-casa): il simbolo di tutti gli usa e getta, universalmente presente, dalle Alpi alle Piramidi, dall’Himalaya all’Oceano Pacifico, dove ha contribuito a formare una “isola di spazzatura” -il Pacific Trash Vortex- che si estenderebbe per quasi 10 milioni di chilometri quadrati.
Derivati dal petrolio e dunque “fossili”, da quarant’anni circa gli shopper circolano nel mondo in numeri sempre più stellari: ultimamente, circa 20 miliardi di esemplari all’anno solo in Italia (fra i consumatori europei più voraci), 100 miliardi in Europa, e (secondo stime a partire da dati dell’Agenzia di protezione ambientale Usa, Epa) da 500 a 1.000 miliardi nel mondo.
L’addio italiano nasce da un dispositivo della legge finanziaria del 2007, che a sua volta ottemperava a una direttiva comunitaria del dicembre 1994 (la 94/62/Ce). Il divieto di produzione e commercializzazione di shopper non biodegradabili dal primo gennaio 2011 è accompagnato dalla concessione di qualche mese a supermercati e negozi per smaltire le scorte.
L’abolizione dei sacchetti di plastica era stata richiesta anche dal direttore del Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (Unep), e non a caso: per l’uso di qualche minuto, i sacchetti rimangono nell’ambiente da un minimo di 15 a un massimo di mille anni. Con notevoli effetti collaterali quando si disperdono: dall’uccisione di centinaia di migliaia di uccelli e altri animali marini a disastrosi allagamenti -in Bangladesh- dovuti all’intasamento degli scarichi.
Quanto al clima, l’Agenzia per l’ambiente del governo australiano ha calcolato le emissioni climalteranti provocate dalla produzione e distribuzione dei sacchetti di polietilene ad alta densità: più di 2 chili di CO2 per ogni chilo di sacchetti di plastica, per produrre il quale serve quasi un chilo di petrolio (900 grammi). Solo in Italia, la produzione di 300mila tonnellate di shopper ricavate dal petrolio comporta, secondo Legambiente, l’emissione di 200mila tonnellate di CO2.
Detto questo, il problema vero oggi è che queste “impresentabili appendici” di ogni acquisto rischiano di non sparire davvero dalla penisola. E che le alternative proposte non si dimostrano, a un’analisi puntuale, davvero “ecologiche”.
La confindustriale Unionplast (Federazione nazionale fra le industrie della gomma, cavi elettrici e affini e delle industrie trasformatrici di materie plastiche ed affini), ad esempio, chiede al Paese di tornare sui suoi passi, e lancia l’allarme occupazione per il comparto (fatturato medio di 800 milioni l’euro e 4mila dipendenti, ma non specifica quanti sono dedicati alla produzione di shopper). Il 5 novembre scorso Unionplast ha addirittura presentato un ricorso al Tar contro la delibera del Comune di Torino che, in anticipo, aveva messo al bando gli shopper non biodegradabili in tutta la città (bando che non è affatto rispettato...). E non si fermerà. Sostiene Unionplast che la direttiva europea 94/62 “packaging waste, che disciplina la gestione degli imballaggi e rifiuti da imballaggio, non vieta affatto i sacchetti non biodegradabili. Basta che in compenso essi abbiano uno di questi alti tre requisiti: riutizzabilità, recuperabilità, riciclabilità”. E, spiega trionfante Unionplast, a differenza del sacchetto di “bioplastica” da materie vegetali, che è solo biodegradabile, gli shopper di polietilene non biodegradabili presentano tutte le altre caratteristiche: si possono usare più volte, possono essere “recuperati” negli inceneritori, possono essere riciclabili. Questa difesa è tirata per i capelli, eppure Unionplast si dice sicura di vincere il ricorso contro Torino, e a livello nazionale suggerisce al governo di proporre piuttosto una campagna per stimolare i cittadini a riutilizzare più volte lo stesso shopper.
In ogni caso, il bando italiano riguarda solo i sacchetti “a canottiera”, cioè con i manici, e tra questi solo quelli destinati all’alimentare. Dovrebbero rimanere in circolazione non solo i sacchetti senza manici per ortofrutta (vedi box a p. 22) ma anche gli inutili e diffusi sacchetti da farmacia, cartoleria, tabaccheria. Nelle catene non alimentari, cioè, non cambierà nulla, se non a livello volontario. La finanziaria del 2007, a cui si riferisce l’attuale “bando”, prevede la sostituzione dei sacchetti di plastica con i cosiddetti eco-shopper in carta o “bioplastica” ricavata da mais e da altre materie vegetali, insomma polimeri biodegradabili e compostabili, certificato secondo lo standard europeo En 13432. Non è la soluzione ottimale: sono altri usa e getta, ma coltivati. Con scarsi vantaggi nel bilancio culturale e ambientale.
I sacchetti biodegradabili di amido di mais (Mater-Bi), di patate o girasole nascono da risorse di origine agricola. Secondo le dichiarazioni di Novamont, una delle aziende produttrici di bioplastiche, “basterebbero” 70mila ettari di terreno a mais e 600mila ettari a colture oleaginose per coprire l’intero fabbisogno italiano di plastiche flessibili per il packaging, pari a circa 1,5-2 milioni di tonnellate. Per parlare solo degli shopper da asporto finale, secondo calcoli di Legambiente per produrne 10 miliardi occorrerebbe 30mila ettari coltivati a mais. Occupare queste estensioni per farne shopper monouso (al più riusabili una volta per i rifiuti organici) significherà un grande impiego di acqua, pesticidi, fertilizzanti di sintesi, che inquinano le falde e comportano l’emissione di gas serra.
Inoltre, l’Italia già importa il 35% del mais consumato (anche se è la coltivazione agricola più diffusa in Italia). E sta aumentando la richiesta di mais per farne agrocarburanti.
Non è ancora stato calcolato, invece, quanta pasta di legno sarebbe necessaria per ricavare industrialmente miliardi di sacchetti di carta? Quanto alla bioplastica, uno studio condotto all’University of Pittsburgh, combinando analisi del ciclo di vita del prodotto e valutazioni legate ad aspetti di progettazione sostenibile, mette in dubbio la superiorità ambientale dei biopolimeri sulle plastiche tradizionali nelle fasi di produzione. Spiega Silvia Ricci, coordinatrice della campagna “Porta la sporta” (vedi box a fianco) promossa dall’associazione dei Comuni virtuosi: “Lavoriamo per la riduzione del monouso di qualunque materiale, che va disincentivato in modo da farlo diventare soluzione di emergenza e non ordinaria. L’esperienza che ha portato i risultati migliori è quella dell’Irlanda, dove una tassa sullo shopper di 22 centesimi di euro, introdotta nel 2007, ha determinato una riduzione del 90% nel consumo”.
Una risposta da cittadini, per aiutare e coinvolgere il “sistema Paese”, è far valere anche nel trasporto degli acquisti la regola delle 4R: rifiuta (l’usa e getta), riduci, riusa, ricicla. Possiamo contare su borse di tela per tutte le occasioni, da tenere a portata di mano ovunque. Per medie o grandi spese le possibilità sono diverse: borse agganciabili al carrello, trolley per la spesa, per sole bottiglie. Quanto alla piccole buste “da merceria”, si tratta semplicemente di rifiutarle. Evitando di alimentare l’usa e getta ogni famiglia italiana risparmierebbe, fra l’altro, l’emissione di 8 chili di gas serra all’anno, e le famiglie italiane sono 22 milioni...

Cotone elastico per la frutta
Nessun divieto all’orizzonte per i sacchetti senza manici, quelli che nei supermercati e nei mercati vengono messi a disposizione di chi acquista l’ortofrutta. Sono sacchetti da asporto intermedi: al mercato è facile farne a meno, chiedendo di pesare i diversi acquisti per poi metterli in una stessa borsa. Ma è difficile evitare l’usa e getta al reparto ortofrutta dei supermercati senza un “coinvolgimento” delle direzioni dei gruppi. Che potrebbero far propria la soluzione, italiana, studiata da Frà Production. L’azienda della provincia di Asti, specializzata nelle reti elastiche e non elastiche per il settore alimentare e medicale, centodieci dipendenti fissi, ha progettato e realizzato una resistente borsa per la spesa in cotone e a rete, denominata Ecottonbag. “È il futuro degli imballaggi, prenderà il posto dei sacchetti trasparenti da pesare -spiega l’amministratore delegato Mauro Mazza-: basta annodare i due capi e applicare l’etichetta”. La grande distribuzione potrebbe, in effetti, dotarsi di bilance con la tara predisposta all’utilizzo del retino, ben evidenziata da una cartellonistica efficace, dedicata ai clienti che vogliono servirsi dei retini riutilizzabili. Acquistati la prima volta a prezzo modico e riportati le volte successive.
La Cooperativa Alta Valsugana, con il coordinamento della Rete trentina di educazione ambientale per lo sviluppo sostenibile, è stata la prima a promuovere la retina lo scorso novembre, con ottimi risultati di gradimento. Info: www.ecottonbag.it, 0141-97.99.11

4 idee sulla sporta
“Porta la sporta” (www.portalasporta.it) offre consulenza gratuita a cittadini, amministratori, aziende, commercianti e loro associazioni, ambientalisti e movimenti spontanei. Per il 2011 ha lanciato nuove iniziative: 1) “Sfida all’ultima sporta”, rivolta a Comuni, Province e Regioni è una gara di riduzione degli shopper monouso a cui partecipano la popolazione, le scuole, gli esercizi: il montepremi in palio è destinato alla scuola del comune vincente; 2) “Mettile in rete!” si rivolge a cittadini, enti locali, commercianti e grande distribuzione come proposta concreta di riduzione degli imballaggi intermedi -di plastica o di carta- quando si acquista l’ortofrutta. È in corso anche la raccolta di firme “Mettila in rete in tutti i supermercati”.
3) “Il monouso di qualunque materiale? Solo a richiesta e solo a pagamento” punta a fare leva sul portafogli per disincentivare lo shopper monouso (anche di carta o mater-Bi). Missione e sfida: far accettare ai negozi e all’opinione pubblica l’adozione della sporta riutilizzabile, la migliore scelta in assoluto per l’ambiente.
4) “Costruirsi una sporta con stoffe riciclate!”: laboratori e -sul sito-cartamodelli per confezionare borse riciclando tessuti.

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