lunedì 3 marzo 2014

ZERO IN CONDOTTA

Zero in condotta "Per fare il maestro serve un ingrediente che non è previsto nei regolamenti: bisogna sentire l’amore verso questi bambini che hanno bisogno di tutto e noi possiamo darglielo". Salutiamo con le sue parole il maestro Mario Lodi, morto ieri a 92 anni, pubblicando l'intervista concessa ad Altreconomia, e contenuta in “Riprendiamoci la scuola”. Il libro di Alex Corlazzoli è un ritratto affettuoso e precario dell’istruzione in Italia, scritto da un maestro di primaria (qui in ebook)

di Alex Corlazzoli - 3 marzo 2014
TRATTO DA
Insegnare è un mestiere o una missione? Sono passati più di sessant’anni anni dalla sua prima lezione a San Giovanni in Croce (Cr), ma il maestro Mario Lodi non ha smesso di insegnare ed educare. È l’insegnante più conosciuto d’Italia per il suo Cipì, libro giunto alla 28esima ristampa per Einaudi. Per incontrarlo bisogna andare a Drizzona, nella sua vecchia cascina, sulla strada tra Mantova e Cremona, dove ha fondato l’associazione Casa delle arti e del gioco (www.casadelleartiedelgioco.it).
Qui accoglie centinaia di bambini ma anche studenti universitari e soprattutto ex allievi, oggi papà e nonni. È un dono, per un giornalista, intervistare Mario Lodi, perché ti rendi conto di avere di fronte un uomo che ha vissuto il periodo della Costituente, un maestro che ha contribuito a far nascere la nostra scuola pubblica statale.

Uno dei pochi che a 89 anni può ancora raccontarti la storia di questo Paese dal momento che l’ha vissuta in prima persona: arrestato per motivi politici durante la guerra, dopo la Liberazione, ha aderito al Fronte della Gioventù. Il maestro Lodi ha conosciuto don Lorenzo Milani e con i ragazzi della scuola di Piadena (Cr), nel 1964, ha avuto l’idea di fare corrispondenza tra le due realtà, dando al priore di Barbiana l’occasione di sperimentare lo scritto collettivo.
Ha ricevuto la Laurea ad honorem dall’Università di Bologna, ha vinto il premio “Viareggio” con il libro Il paese sbagliato (1970), ma quando lo incontri hai proprio la sensazione di parlare con il tuo maestro delle elementari. Vedi nei suoi occhi l’allegria di chi è rimasto per tanti anni con i bambini, amandoli. 

Maestro Lodi, cos’è rimasto della scuola pubblica statale che lei e altri avete realizzato a partire dall’epoca repubblicana?
“Noi avevamo ben chiare le idee: l’Italia era allo sfacelo. L’esperienza del fascismo e del nazismo aveva sconvolto tutta l’Europa. Bisognava rifare tutto: le leggi, le gerarchie, gli insegnanti. Ci siamo messi al lavoro e abbiamo guardato che tipo di scuola doveva avere una società democratica. La nostra scelta è scivolata lentamente ma durevolmente sulla Costituzione italiana. A 60 anni di distanza abbiamo i rottami di questa democrazia imperfetta. E allora che cosa deve fare il maestro per riportarla alla vivacità della prima fase? La scuola di una democrazia normale, non dico perfetta, deve accogliere. Dev’essere una scuola che inizia ogni anno con una festa dell’accoglienza.
In secondo luogo, il concetto di assemblea si deve sostituire a quello di classe. Abbiamo bisogno di una scuola senza un capo che comanda, che dice ‘fai così altrimenti ti boccio’. Se il bambino è accolto lo è nel bene e nel male. Noi diciamo di essere sociali, ma non è vero. Domina nella gerarchia della scuola il concetto di chi vale di più e chi meno. Infine, la scuola dev’essere la seconda casa del bambino. Quando entra nella scuola, come diceva Maria Montessori, il ragazzo deve portarsi dietro delle abitudini che diventano la democrazia in atto. Questo ci serve per avere sullo sfondo l’educazione al rispetto dell’ambiente. Se noi consideriamo l’aula la nostra seconda casa, le vogliamo bene e quindi la difendiamo da chi vuole distruggerla. Così diventiamo ‘patrioti’ della democrazia e impariamo il rispetto dell’ambiente”.

Insegnare è un mestiere o una missione?
“È una buona domanda, difficile da mettere in pratica. Perché siamo in equilibrio: chi sceglie di fare il maestro sceglie una professione, ma è diversa da qualsiasi altro lavoro. Per fare il maestro serve un ingrediente che non è previsto nei regolamenti: bisogna sentire l’amore verso questi bambini che hanno bisogno di tutto e noi possiamo darglielo. A questa domanda dobbiamo rispondere quando entriamo in aula, levandoci il cappello e dicendo: ‘Io sono nella vostra scuola e sarò un vostro amico, non il maestro che giudica ma un amico che vi consiglia’. Questa è la scuola. Se riesce ad interpretare il significato della vita, pone le condizioni perché si creino delle simpatie, non per dire questo è più bravo dell’altro ma per poter affermare che tutti assieme possiamo dare qualcosa alla scuola. E le simpatie si esprimono attraverso l’organizzazione del lavoro. Tutto quello che si fa dev’essere al fine di migliorare la società, l’insieme della società non il capo. Per questo abbiamo introdotto nella mia scuola a Piadena una tecnica nuova ma vecchia: la stampa. Tutto quello che era fatto a scuola doveva essere scritto, documentato e divulgato ai genitori, agli amici. La scuola così serve per tutti”. 

Che cosa faceva lei quando entrava in aula?
“Mi toglievo il cappello, come ho detto. E poi i bambini mi riconoscevano. Mi raccontavano di loro, del papà, del loro gattino, di ciò che amavano mangiare, Si descrivevano autobiograficamente. Ci mettevamo in cerchio per poterci guardare in faccia e non allineati in modo che uno coprisse l’altro. Nasceva la base della democrazia: noi ci conosciamo, voi ci conoscete. Se questo esercizio lo faccio ogni giorno creo l’abitudine alla democrazia”. 

Oggi si è tornati a parlare di valutazione aprendo un ampio dibattito sulle prove Invalsi. Si discute anche di come misurare la validità dell’insegnante. Lei che ne pensa?
“Dobbiamo chiederci perché si fanno gli esami nella scuola. Per giudicare i bambini? Per scartare quelli che non possono andare avanti? Ma chi giudica chi fa? Qui siamo di fronte a una difficoltà. L’esame che dobbiamo fare non è una prova qualsiasi ma un esame di coscienza: in quella scuola i genitori sono contenti che i loro bambini imparino a parlare, a ragionare, a fare esperimenti in quel modo? I genitori sono soddisfatti di come la maestra ha condotto il gruppo alla conquista del sapere senza imporre le sue idee? I bambini possono giudicare le maestre? La fiducia è essenziale. I fanciulli non vanno messi nelle condizioni di essere bocciati. Nella Costituzione non c’è mai un articolo che parli di bocciare. C’è il verbo promuovere. Ciò vuol dire mettere i ragazzi nelle condizioni di saper risolvere dei problemi e interpretare il senso della scuola con una larghezza di veduta. Possiamo noi pensare di chiedere ai maestri di sostituire la nota negativa con una positiva? Può essere accettata l’idea di una scuola che promuove il senso della responsabilità?”.

Nel 1956 cambia scuola. Arriva a Vho di Piadena, dove resterà fino alla pensione. Quando visita la scuola che la ospiterà, racconta che vede un’aula triste. Quanto contano la struttura, l’aula, nella scuola italiana, dove gli edifici cadono a pezzi, non sono agibili e sono obsoleti?
“Le modifiche si fanno a seconda del programma che svolgiamo. Io toglievo la cattedra perché non serviva. Se la nostra aula è brutta, vecchia e cadente cerchiamo di migliorarla per renderla abitabile. E allora avviene un passaggio: dalla delega alla modifica della realtà in senso pratico. Se abbelliamo un’aula con dei vasi di fiori va deciso chi si cura di annaffiarli. Se ci sono dei libri, chi si interessa della biblioteca. Se c’è chi si occupa, allora nasce dalla scuola la praticità”.

Che ruolo avevano i genitori per il maestro Mario Lodi?
“Erano quelli che avevano messo al mondo dei bambini e me li presentavano come la cosa più preziosa che avevano. I genitori erano consultati prima dei colleghi. Gli  dicevo che cosa avrei voluto fare e perché e se fossero d’accordo sul tipo di educazione che volevo fare. Altrimenti potevano iscriverli altrove. Ma non è mai successo. Anzi. Mi mandavano quelli più problematici. I colloqui con i genitori avvenivano la sera affinché venissero anche i padri. Ma va detto che i genitori erano costantemente informati perché stampavamo un giornale”.

Veniamo a Cipì, storia nata nella piccola scuola di Vho, dove i bimbi scoprirono dalla finestra una storia intensa e drammatica, che annotarono, dando vita alla favola vera del passerotto Cipì. Dopo 50 anni Cipì provoca ancora emozione e interesse nei bambini. Qual è il segreto?
“Me lo domando ancora anch’io. Eppure c’è qualche punto debole in Cipì. In questa storia, che in fondo è la storia dei bambini che si identificano con quella dei passeri, manca il papà di Cipì: non c’è, è sparito. E spesso i bambini oggi si pongono l’interrogativo: dov’è il papà di Cipì? Alla televisione? È il problema dei papà che si aggregano per formare una famiglia nuova che non c’è, forse. È drammaticamente d’attualità. Un altro aspetto sul quale dopo tanti anni rifletto è che la storia finisce con l’allontanamento del pirata, di uno che incanta e poi mangia i bambini. È cronaca anche questa Nel libro quello che hanno visto fare dai grandi l’hanno attribuito ai piccoli. Non so perché è ancora così letto, non so se sia merito dei media, dei cartoni animati. Me lo sto ancora chiedendo...”.

È possibile oggi continuare a dare gambe alla scuola che lei ha sognato e costruito facendo i conti col precariato?
“La parola stessa -precario- dice che non basta. Nel precario qualcosa manca. Il precario deve costruirsi la sua realtà scolastica. Ma precario cosa significa esattamente. I precari lo sanno chi sono? Sanno quello che chiedono? Sanno se è possibile ottenere quello che domandano? La figura del precario è la figura del maestro o no? Purtroppo siamo di fronte alla mobilità magistrale”.

Il maestro nella società di oggi è ancora una figura di riferimento?
“La società moderna è totalmente cambiata. Ha sostituito i valori tradizionali con altri cosiddetti ‘nuovi’, ma vecchi come il cucù. Ad esempio il concetto di libertà: siamo liberi, siamo in una democrazia, possiamo fare quello che vogliamo. Ma non è vero perché tutti i giochi hanno una regola anche quello del calcio, delle carte. Noi non siamo singoli che esercitano la libertà ma siamo Stato, unione di individui che hanno lo stesso fine: costituire una società valida. Le figure che aveva un tempo la scuola non valgono più. Valgono per comandare ma non per servire”.

Si può definire ancora attuale la scuola di don Milani?
“Quella di don Milani è un’idea che si inserisce negli esperimenti fatti nel secondo dopoguerra. L’idea della pluriclasse che aveva in mente don Lorenzo coincideva con le pluriclassi che illustri pedagogisti avrebbero praticato anni dopo. Resta attuale quel discorso. Sono convinto che come un genitore con figli di diversa età usa linguaggi diversi per farsi capire, così anche la scuola deve usare linguaggi diversi perché comprenda il bambino. La scuola è come una famiglia. Oggi l’idea di pluriclasse di don Milani, purtroppo, è stata distrutta”.

Educare o insegnare?
“Posso rispondere con le parole di don Milani: ‘Non dovreste fare questa domanda a me ma dovreste preoccuparvi di come siete voi nei confronti dei ragazzi. Perché dalla risposta che date dipende tutto il vostro programma’. Educare e insegnare è la stessa cosa se rispettiamo questa regola. È una legge universale”.

La scuola dà i numeri
7.805.947 gli studenti della scuola statale (998.258 scuola dell’infanzia; 2.574.163 primaria; 1.660.602 secondaria 1° grado e 2.572.924 secondaria 2° grado (Istat 2009/10).
900.000 i docenti (di cui 700mila di ruolo).
35,2% dei docenti ha tra i 36 e i 45 anni; il 30,9 tra i 46 e i 55 anni e il 17,8% ha oltre 55 anni. Solo il 16% ha tra i 25 e i 35 anni.
116.974 gli insegnanti precari (2010/11).
53 miliardi di euro i pagamenti per l’istruzione pubblica di Stato, Regioni, Province e Comuni.
3,5% l’incidenza sul Pil della spesa pubblica in istruzione e formazione.
700 milioni di euro i contributi “volontari” dei genitori.
1 miliardo di euro
i residui attivi, cioè il debito dello Stato verso le scuole.
38 le vittime per crolli e incidenti nelle strutture scolastiche (2002-2009).
55% degli edifici (22.858 su 42.000) sono costruiti in zona sismica.
29 il numero massimo (“fuorilegge”) di alunni nella scuola primaria.
2,6%, gli alunni con disabilità nella primaria (2009/10). 189.000 gli allievi disabili in tutto, con 95.000 docenti di sostegno (2010/2011).

Alzate la mano
Una scuola da cambiare: “Ragazzi, ora che è finita la scuola spero di essere riuscito a fare lezione facendovi divertire. [...] ognuno di voi mi ha insegnato qualcosa perché in classe è il maestro che impara, non solo i bambini. So bene che quando sarete grandi non vi ricorderete gli assiri e i babilonesi [...] ma non dimenticate mai queste quattro regole. Uno: rompete sempre le scatole. Così come sto facendo io saltando su questo scatolone vuoto. Due: tacere mai. Non state zitti di fronte alle ingiustizie. Tre: non siate mai indifferenti. Se passate di fronte ad un uomo che chiede la carità, chiedetevi perché è lì? Quattro: viaggiate”.
Con queste parole si chiude l’anno scolastico del maestro Alex Corlazzoli. Maestro di provincia, precario, ma anche giornalista, racconta la scuola quotidiana, quella dei genitori costretti a finanziare carta igienica e gessi, delle lavagne elettroniche mai arrivate, quella degli Invalsi che si “incartano”.
Alex è “il maestro che tutti vorremmo” scrive Maria Luisa Busi nell’introduzione a Riprendiamo la scuola. E aggiunge “Questo è un grande libro. Per capire meglio dove sta andando il nostro Paese, guardiamo la scuola: il pezzo d’Italia che dovremmo amare di più, difendere di più...”.
Con un “regalo” di Alessandro Bergonzoni. Riprendiamoci la scuola. Diario d’un maestro di campagna, di Alex Corlazzoli, 136 pagine, 8 euro. Su www.altreconomia.it; in libreria e nelle botteghe da settembre.

Grazie per i commenti.

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