venerdì 24 ottobre 2014

RIPENSIAMO IL MONDO

Ripensiamo il mondo

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Street art, Buenos Aires (fonte: graffitimundo.com). Alle biciclette e alla storia della mobilità, Ivan Illich ha dedicato uno dei suoi libri più noti “Elogio della bicicletta”

di Eugene J. Burkhart*
illEra una mattina dell’estate del 1973. Illich dirigeva il suo seminario «I limiti della crescita» a Cuernavaca, in Messico. Era seduto su un muretto che circondava la veranda della Casa Blanca, una costruzione stile vecchia fattoria, nell’area di quel luogo di apprendimento chiamato Centro de Documentación Intercultural (CIDOC). (…) Dal mio arrivo al CIDOC erano trascorse alcune settimane, nelle quali avevo tentato di inquadrare quel personaggio tanto contestato. Come molti altri, lo consideravo realmente intelligente; il suo intelletto era formidabile e sconcertante come nessun altro; era anche molto carismatico. La sua figura e la sua vivacità erano notevoli… ma non era solo un uomo di idee. Quello che aveva fatto al CIDOC era molto diverso dalle istituzioni educative che avevo conosciuto fino ad allora. Praticamente non c’era una struttura amministrativa né un personale stipendiato; tantomeno si offrivano crediti formativi o diplomi accademici. Tuttavia regnava nell’a ria una specie di devozione per l’apprendimento. Forse quel luogo somigliava più all’idea originaria di ciò che dovrebbe essere un’università che alle ambizioni delle sue controparti più convenzionali.

Bene, tutto ciò andava molto bene, ma io continuavo a chie dermi quale importanza potesse rivestire per i poveri. Il lich era realmente interessato ad essi? Cosa proponeva di fare a vantaggio di coloro che vivevano in condizioni disperate, o per quanti soffrivano l’oppressione dei regimi militari latinoamericani? Il CIDOC era qualcosa di più di un’oasi privilegiata? Dopo aver molto pensato e conversato con altri studenti nordamericani presenti in quel momento al CIDOC, mi sentivo sicuro delle mie idee. Quella mattina ero venuto al seminario con la conclusione cui ero arrivato nella nottata, e cioè che Illich era un commediante, un uomo avviluppato nel la propria intelligenza, pericolosamente poco attento ai problemi sociali così acuti in quei giorni. (…)
Mentre lo osservavo, la mia indignazione cresceva e si faceva più intensa ad ogni parola che usciva dalla sua bocca. Ad un certo punto accadde qualcosa di strano: all’improv viso Illich si voltò verso di me. Per poter guardare verso dove mi ero seduto dovette girarsi un bel po’, ma non potevo essere certo che mi avesse notato, dato che ero veramente alla periferia del suo campo visivo, e inoltre non mi conosceva. Forse aveva potuto percepire la mia irritazione? Continuò a parlare e per tutto il tempo mantenne lo sguardo rivolto verso di me, come se cercasse davvero di farmi comprendere ciò che stava dicendo. Io risposi guardandolo e, malgrado non capissi una sola delle sue parole, cominciai a sentire che tutta la confusione mentale ed emotiva mi stava abbandonando in maniera inspiegabile. In quei brevi momenti vissi l’espe rienza di guardare per la prima volta e in maniera intima e personale quell’uomo, Ivan Illich, e sentii che era qualcuno nel quale avrei voluto avere fiducia. Ma non avrei avuto una conversazione diretta con lui se non molti anni dopo.
Quando arrivai al CIDOC avevo ventitré anni. Dovevo iniziare il corso di giurisprudenza nell’autunno ormai prossimo, e non sapevo dove questa decisione mi avrebbe portato. Come molti studenti nordamericani presenti al CIDOC, ero arrivato carico di fosche previsioni sul mio paese. Quello, per gli Stati Uniti, era un tempo di inquietudini e di agitazione sociale. Incombeva la guerra del Vietnam; stavano iniziando le sedute pubbliche del caso Watergate; in tutta l’A me rica Latina si impadronivano del potere dittature militari favorite e sostenute dal governo statunitense, mentre a livello nazionale le proteste si scontravano con la violenza ufficiale. (…) Avevo deciso di studiare legge per lavorare per la giustizia sociale. Ero venuto in Messico soprattutto per imparare lo spagnolo (il CIDOC era conosciuto come la miglior scuola di lingue dell’America Latina). (…) Lì c’era un luogo confacente a molte delle mie inquietudini interiori, dove studiosi e attivisti sociali di tutto il mondo si riunivano per discutere sulla politica, sull’economia e sul cambiamento sociale. (…) Per molti di noi al CIDOC (universitari di classe media e con una elevata sensibilità sociale) Illich non fu quello che ci aspettavamo. Non parlava con le parole allora in voga nella politica radicale, usava poco i termini della lotta di classe, come ad esempio oppressori e oppressi, e tantomeno faceva riferimento alla politica dei movimenti sociali. (…) Non lusingava mai il nostro senso di superiorità morale, né idealizzava romanticamente quelli che, negli Stati Uniti, noi consideravamo emarginati (affermava che i poveri, in Nord America, consumano molto più di quello che potrebbe sognare la maggior parte degli abitanti dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo). (…)
Prima di conoscere quella di Ivan Illich, la linea di pensiero politico che mi era più familiare era basata su una premessa abbastanza comune: la giustizia sociale intesa come giustizia distributiva. La maggior parte dei problemi della società si sarebbero risolti quando i suoi segmenti più impoveriti avrebbero ricevuto una fetta più equa del prodotto dell’economia industriale. (…) Illich sfidava queste idee. Rivoluzionando il dibattito politico, argomentava che è all’interno del modo di produzione industriale che si trova in realtà la radice dei nostri mali. La crescita industriale non rende più liberi, anzi, condanna la gente a un nuovo tipo di schiavitù. Affermava che una vita dipendente dai servizi e dai beni prodotti in massa distruggeva le condizioni necessarie per una buona vita. E se qualcuno cominciava ad avvertire con preoccupazione i rischi della sovrapproduzione di beni (lo spreco, l’inquina mento, la saturazione che essi creano), Illich era già andato più avanti criticando un tipo di merce immateriale: i servizi.Quello che tutto il mondo considerava un beneficio indiscutibile (educazione, salute, sicurezza sociale) Illich lo definiva dannoso e disabilitante.
Tutto questo mi appariva dirompente. Cosa si doveva fare di fronte a questi aforismi sorprendenti e scioccanti di Illich: le scuole rendono stupidi, le automobili paralizzano, la medicina fa ammalare? Quando lo ascoltavo mi assaliva spesso la sensazione di stare imparando un nuovo linguaggio e, assieme a questo, una nuova maniera di pensare e di guardare. E come accade quando si impara una nuova lingua, mi sentivo frustrato e insicuro circa la mia capacità di impadronirmene pienamente. (…)
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fonte: http://oddstuffmagazine.com
Tornando negli Stati Uniti iniziai i miei studi universitari e non ebbi occasione di vedere Illich se non undici anni più tardi, ma in tutto quel tempo mi ero dedicato a studiare seriamente tutto ciò che aveva scritto (…) Gli argomenti contenuti inDescolarizzare la società acquistavano pieno significato, e la mia esperienza personale li confermava. (…). Quell’anno mi trasferii in città (sto continuando a lavorare in questa città e nello stesso studio). Avevo letto Energia ed Equità e avevo chiaro che non desideravo essere un pendolare (commuter), ovvero un individuo vaivén, percorrendo ogni giorno grandi distanze da casa al luogo di lavoro. Sentivo anche il bisogno di sentirmi parte della comunità nella quale lavoravo. (…) Oltre ai lavori di Illich studiavo alcuni dei critici più sagaci della società industriale: Lewis Mumford, E. F. Schumacher e Peter Maurin. (…) Anche se nessuno degli autori che io stimavo come i più profondi proponeva piani di azione specifica, e ciascuno metteva l’accento su tematiche fra loro diverse (per esempio, Illich parlava di convivialità), era chiaro che esisteva fra loro un consenso sulle caratteristiche generali di una società desiderabile. Avrebbe dovuto essere di piccola scala, più decentrata, con un minor numero di oggetti, e oggetti riparabili e durevoli; una società in armonia con la natura e con una relazione di integrazione fra la campagna e la città; in equilibrio fra il lavoro intellettuale e il lavoro manuale; una società in cui prevalessero l’aiuto reciproco e l’autosufficienza, e in cui l’ozio e la ricreazione arricchissero la vita comunitaria.
Mi aveva ispirato in particolare un’esorta zione di Peter Mau rin che invitava acostruire la nuova società a partire dallo scheletro della vecchia (cfr. Gneuhs, 1988). Non era un appello a fare una rivoluzione nel senso corrente della parola, ma un invito provocatorio rivolto a ciascuna persona perché vivesse nella propria vita il cambiamento che desiderava vedere sul piano sociale. Pensai che questo approccio, personale e a partire dal basso, potesse conciliarsi perfettamente con il lavoro giuridico che avevo scelto.
(…) Unico fra i critici delle società industriali, Illich aveva iniziato la sua analisi concentrandosi sul settore dei servizi. Partendo dalla Chiesa come istituzione, si era interessato dell’e du cazione e poi della medicina. In maniera sempre più profonda e più chiara aveva mostrato che i servizi sono prodotti del modo industriale di produzione tanto quanto le merci. E, cosa ancora più sorprendente, le sue argomentazioni si incentravano sul fatto che, così come la sovrapproduzione di beni provoca effetti dannosi per la società, altrettanto fanno i servizi. Entrambi conducono a ciò che Illich chiamava la contro-produttività paradossale, lo sconcertante fenomeno di una istituzione o diun’agenzia che ostacola il raggiungimento dell’obbiettivo stesso che intendeva realizzare. Come esempio di ciò prendiamo le scuole, che generano studenti indolenti e passivi; o le pratiche mediche che fanno ammalare la gente e alimentano stili di vita e ambienti poco salutari.
In realtà non compresi la portata di tutto ciò se non qualche tempo dopo aver iniziato il mio esercizio di avvocato. Oltre ad essere un avvocato abilitato per le cause civili, mi trovai proprio nel centro del mondo dei servizi sociali, dato il tipo di lavoro che svolgevo. Battagliavo regolarmente con le grandi istituzioni della società moderna e i loro agenti: assistenti sociali, medici, terapeuti, maestri, poliziotti, avvocati e amministratori di ogni genere. Man mano che progredivo nella conoscenza del funzionamento di tali sistemi, cominciavo a riconoscerne certe caratteristiche. La prima di queste caratteristiche: ogni sistema opera come un business (così funziona, ad esempio, il mio ufficio legale), procurando guadagni e prestigio a coloro che ne fanno parte. Al di là dei nobili ideali sui quali si fonda ogni sistema, raramente qualcuno opererebbe mettendo a rischio la propria sicurezza e la propria posizione dentro il sistema. La seconda: come qualsiasi altro genere di affari, i sistemi dei servizi hanno bisogno di nicchie di mercato. In questo caso, i consumatori sono i clienti potenziali dei servizi che vengono offerti. Grazie all’esperienza e al supporto istituzio nale, spesso agendo con le migliori intenzioni, i fornitori dei servizi imparano a considerare le persone come qualcuno che è carente, e pertanto ha bisogno di ciò che essi offrono. La polizia cerca e trova criminali e persone da proteggere; gli assistenti sociali classificano sempre più famiglie e persone minorenni come in situazione ‘di rischio’; i medici diagnosticano a un maggior numero di pazienti la necessità di analisi e trattamenti costosi.
Tutto ciò è buono per gli affari. Ed è anche più insidioso perché le istituzioni dei servizi si appropriano di ciò che le persone stesse potrebbero fare da sole o con l’aiuto reciproco (o potrebbero smettere di fare) e si sostituiscono ad esse creando una relazione di dipendenzaLa gente perde la propria capacità di curarsi, di apprendere, di soffrire, di consolarsi, di risolvere le dispute senza assistenza professionale. In questa maniera, mentre sempre più gente perde la fiducia in se stessa e l’indipendenza, ci sarà un maggior vantaggio per l’e co nomia.
Dopo un certo tempo mi resi conto del gioco. Quando la gente mi chiedeva: «Come va il lavoro?», io rispondevo: «Sempre meglio: le famiglie si separano e così abbiamo una gran quantità di cause di divorzio e di casi di delinquenza gio vanile; gli arresti crescono, quindi mi ritrovo diecine di cause penali; gli incidenti stradali e gli infortuni sul lavoro prosperano, così il mio portafoglio è sempre più gonfio! Gli affari vanno bene!». In un modo malsano tutti noi che partecipiamo all’economia dei servizi ingrassiamo sulla decomposizione della società, praticando il cannibalismo sociale.
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fonte: http://www.waitgreen.com
In Lavoro ombra e Il genere e il sesso, Illich spiega questo fenomeno come il prodotto ovvio di un’economia snaturata. Esaminando l’origine storica della società moderna, Illich segnala, nelle due opere citate, che tutte le società precedenti alla nostra avevano imposto dei limiti all’attività economica, incorporandola solidamente nell’ordito sociale. (…) L’economia ha dimostrato di essere una forza incontenibile, capace di smantellare, pezzo dopo pezzo, le società tradizionali. Le molteplici e varie modalità e risorse possedute dalla gente per entrare in relazione e per vivere furono rimpiazzate da una vita dipendente dalle merci (sia beni che servizi) e dal lavoro salariato. Ormai non abbiamo più una società, abbiamo un’economia, disse Illich.
(…) Illich contrapponeva all’economico quei modi pre-moderni di vivere che definiva di sussistenza o vernacolari. Proponeva una ‘sus sistenza moderna’ quale alternativa all’economia per rom pere col vincolo monetario, ma io mi chiedevo dove poter trovare degli esempi. (…) Proprio nel periodo in cui mi scontravo con queste domande e disperavo di poter trovare risposte, una mattina trovai nella mia corrispondenza un opuscolo sulla cui prima pagina c’era una foto di Ivan Illich. L’informazione, che avevo ricevuto grazie al mio lavoro con le famiglie che avevano figli non scolarizzati, annunciava un seminario di una settimana al Maine Summer Institute, con la partecipazione di Ivan Illich e vari suoi colleghi. Organizzato da un suo amico e patrocinato dall’università del Maine, il seminario era centrato sul tema: «La storia dell’uomo economico». Fu lì che per la prima volta ebbi un contatto personale con Illich e potei conoscere in maniera più ravvicinata il suo modo di vivere. Questo avvenne nel luglio del 1984.
La riunione si svolse in un collegio privato di livello signorile e aveva lo stesso spirito e la stessa atmosfera energizzante che si respirava al CIDOC. Tutti i partecipanti, inclusi i conferenzieri, erano alloggiati nei dormitori e pranzavano alla mensa della scuola; mi venne da pensare a una specie di accampamento gitano. Lì c’erano questi ‘viandanti’, Illich e i suoi amici (sembrava sempre circondato da amici, non da discepoli), che venivano da luoghi diversi e distanti per ritrovarsi, in una specie di riunione festosa. Si sentivano battute sul ‘circo volante di Illich’ o sulla ‘compagnia ambulante’. L’allegria di Illich alla presenza dei suoi amici era evidente, ricambiata da ciascuno di loro ed amplificata dalla natura transitoria dell’evento. E in questo clima si svolgevano le conversazionila maggior parte delle quali si teneva al bar, come appendice al pasto. (…) Subito mi resi conto che quelle conversazioni erano il vero cuore della conferenza, mentre le relazioni programmate erano solo degli ottimi complementi.
Lì venni a sapere che il CIDOC aveva chiuso le porte nel 1976 e che Illich stava insegnando in un’università tedesca. Rimasi paralizzato. Avevo di fronte a me uno dei più famosi critici dell’educazione e dei trasporti ad alta velocità, che sta va tenendo lezioni in un’università e volava intorno al mondo in aerei a reazione. Come giudicare questo? Allora Illich era un ipocrita? Con mia sorpresa, questo aspetto della sua vita fu quello che mi offrì la risposta ai dilemmi che mi avevano inquietato, e potei cogliere una prospettiva profonda che offriva un percorso di vita in mezzo all’economia industriale.
Illich non era un ipocrita, e neppure un purista o un puritano. Non era ingenuo e cercava di dare senso alle realtà della sua vita e del suo tempo. Il triste è che non c’è via di fuga dall’economia industriale, non c’è modo di vivere al di fuori di essa. Come evitare, ad esempio, di farsi trasportare con le automobili, quando l’ambiente sociale e fisico è stato trasformato in funzione di queste? Illich sembrava dire: «Affrontiamo la realtà senza ingannarci pretendendo di non vedere le condizioni umilianti nelle quali viviamo. Siamo intrappolati in molti modi. È necessario rendersi conto di ciò che questo stile di vita sta producendo su tutti noi. Non dobbiamo lasciarci sedurre dai suoi promotori; è necessario conservare la capacità di riconoscere (e soffrire) gli orrori della vita moderna».
Ma Illich non invitava alla disperazione o alla rassegnazione. Credeva nell’esistenza di strade che potessero sottrarci, almeno in una certa misura, all’economia, secondo le circostanze specifiche della vita di ciascuno. Era una questione complicata, senza regole prefissate o misure facili. Non la trasformò in un pretesto per alimentare una superiorità morale. Si trattava di atti di resistenza o di rinuncia, quando questi erano possibili. Illich stesso visse una vita modesta e disciplinata; fissò i limiti delle sue entrate economiche e trovò il modo per situarsi ai margini della vita universitaria, senza coinvolgersi nel gioco dei titoli accademici, senza far parte di commissioni o di consigli universitari e senza cercare di ottenere una posizione permanente in queste strutture. Ma (cosa ancora più importante) Illich seppe utilizzare l’ineludibile ambito dell’economia per promuovere il suo opposto: la vita vernacolare. O conviviale. Col proprio denaro aiutò amici che facevano un lavoro prezioso. Fece uso della cattedra per approfondire la sua critica della società industriale ed esplorare percorsi per trascenderla. Sembrava inoltre che possedesse un fiuto privilegiato per individuare nicchie e fessurazioni nell’ordine costituito, per aprire spazi nei quali poter stimolare, in compagnia di amici e studenti, una certa gioia di vivere, un sentimento di fratellanza, di libertà e di empatia.
Ritornai dal Maine rinnovato; mi ero reso conto che non dovevo rinunciare al mio lavoro; semplicemente potevo dedicargli meno tempo. Cominciai a riorganizzare la mia settimana per ridurre a quattro i giorni lavorativi, liberando tempo per lo studio e la lettura, e per integrarmi più attivamente nella mia comunità. Non dovevo disfarmi della mia auto, ma utilizzare la bicicletta per recarmi al lavoro. Ero cosciente di non poter praticare l’autosufficienza alimentare, ma potevo arricchire ed ampliare il nostro orto di casa. Più tardi, quando avemmo figli, non ci risultò difficile prendere la decisione di non scolarizzarli. (…)
A partire dal 1998 tornai a visitare Illich tutti gli anni, spes so più di una volta all’anno. La maggior parte dei nostri incontri si svolsero alla Pennsylvania State University in occasione dei suoi corsi autunnali (…) La chiave dell’atmosfera di ospitalità e di festosità che vissi nel corso di quelle visite era il riflesso dell’amicizia di Illich nei confronti dei suoi invitatI. Egli fu per tutti noi l’amico più devoto, uno che coltivò l’arte dell’amicizia nella sua espressione più alta – assieme alle abitudini del cuore che la rendono possibile. Però la sua non fu mai un’amicizia escludente o esclusiva. Ci ricordava sempre che l’amicizia fra due persone deve essere aperta ad una terza persona: l’e stra neo che ci sorprende suonando alla porta. (…)
Ad un certo punto giunsi alla conclusione che il modo mi gliore per capire Illich sarebbe stato lo studio dettagliato della miriade di ostacoli che si oppongono all’amicizia nel mon do di oggi. Le forme di rinuncia e di resistenza che ispirò, e che successivamente chiamò askesis, non erano altro che un nuovo tipo di ascetismo; pratiche che sono la condizione necessaria per la fioritura dell’amicizia nei nostri attuali panorami desolati (…). Quando ripercorro con la memoria gli anni trascorsi da quel giorno in cui mi rivedo seduto sulle scale della veranda della Casa Blanca, mi invade un immenso sentimento di gratitudine. In quale misura fui benedetto! Come potrei ripagare Illich per quello che mi ha dato? Ma so che lui avrebbe voluto che fossi più preciso nell’uso delle parole. L’amicizia non può essere valutata economicamente, né può figurare in un bilancio economico. L’unico modo in cui spero di poter mostrare la mia gratitudine è sforzarmi di essere per gli altri quel tipo di amico che Illich è stato per me.
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* avvocato statunitense
estLa versione completa di questo articolo – titolo originale Il cammino dell’amicizia – è suRipensare il mondo con Ivan Illich (testo a cura di Gustavo Esteva, tradotto da Aldo Zanchetta e Maria Adele Cozzi per la casa editrice Hermatena). Il libro, qui anticipato in esclusiva, è da ottobre nelle librerie.
Per approfondire il pensiero di Ivan Illich suggeriamo di sfogliare questa sezione del sito Kanankil.it, curato da Aldo Zanchetta, autore anche dell’articolo  L’archeologo della modernità, dedicato a Illich.
Grazie per i commenti.

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