Apre oggi i battenti la 17a Conferenza delle Parti Onu sul cambiamento climatico a Durban, in Sudafrica. E non potrebbe farlo sotto migliore auspicio, se si pensa che proprio in questi giorni il Governo conservatore del Canada ha deciso di mettere in un cassetto il Protocollo di Kyoto e tutte le sue velleità di un accordo concreto e vincolante per combattere il Climate Change. Peter Kent, ministro dell'Ambiente canadese, sbarcherà all'aeroporto sudafricano portando con sé una vera e propria bomba diplomatica. Dopotutto l'House of Common di Ottawa si è espressa il 22 novembre e democrazia vuole che, se il Parlamento decide il Governo esegua.
Oltre 190 Paesi e le loro delegazioni si ritroveranno, una volta di più, a contrattare sulla pelle di un pianeta sempre più in bilico, dove eventi metereologici estremi stanno trasformandosi in veri e propri sintomi di una febbre che non cala. E se il paziente decide di non seguire le terapie mediche, proposte in questo caso dall'IPCC, il Panel intergovernativo di scienziati che si occupa di ipotizzare il futuro e di dare soluzioni, allora sperare in una guarigione è quanto meno illusorio.
A Durban i faldoni sul tavolo sono molti. Ma quello più impolverato ha scritto Kyoto in copertina. Perchè è il 2012 l'anno della verifica, alla scadenza del primo periodo di impegni (2005 -2012) che avrebbe dovuto portare un'inversione di tendenza su scala globale nelle emissioni di CO2. Inversione che non solo non c'è stata (la concentrazione di CO2 viaggia simpaticamente attorno alle 392 ppm in crescita) ma che rischia di non esserci più se il secondo "committment period", il secondo periodo previsto dal Protocollo che dovrebbe dal 2012 in poi consolidare gli impegni vincolanti nel taglio delle emissioni, si trasformerà in un semplice approccio volontario.
E' difficile, in effetti, trovare un accordo quando la Cina primo inquinatore globale (ma in senso assoluto, non procapite) vuole avere mano libera e quando gli Stati Uniti la mano libera l'hanno sempre avuta. Ma diciamo che la posizione del Canada non aiuta a risolvere l'arcano.
Altro grande capitolo sul tavolo sarà il finanziamento per mitigazione ed adattamento. Numero ballerini, dalle stime della Banca Mondiale a quelle del rapporto Stern, parlavano di centinaia di miliardi di dollari stanziati ogni anno per avere ritorni concreti. Copenhagen prima e Cancun dopo hanno partorito il topolino del Green Fund, 100 miliardi di dollari all'anno mobilizzati entro 2020. Da dove vengano e come vengano gestiti non si sa, esiste un transitional committee che si sta riunendo dal marzo di quest'anno, ma difficilmente porterà una soluzione concreta in un momento di recessione globale.
E se le risposte che arriveranno, come è probabile che sia, parleranno ancora di meccanismi di mercato per combattere le emissioni allora la farsa sarà totale. Non solo il Carbon trading nello schema europeo (Ets, European trading system) ha mostrato falle ed addirittura frodi, ma le stesse banche come la svizzera UBS dichiarano che il carbon pricing è troppo basso per poter avere un reale impatto positivo sulla questione climatica.
Gli Stati Uniti qualche idea l'avrebbero. Ma la ricetta risulta essere un po' la stessa. In un recente documento sottoposto all'UNFCCC, gli Usa propongono che sia il privato a prendere le redini del gioco. Pur riconoscendo l'importanza della finanza pubblica nel sostenere l'adattamento dei Paesi più vulnerabili, c'è da riconoscere che "gli investimenti provati continueranno ad essere il driver principale della crescita economica, e che la transizione ad un'economia a basso contenuto di carbonio, resiliente al cambiamento climatico non si avrà attraverso la spesa pubblica". Dopotutto ci sono "investitori istituzionali come i fondi pensione, i fondi sovrani e assicurativi che controllano migliaia di miliardi di dollari cercando opportunità di investimento di lungo periodo".
Una posizione contraria alle stesse indicazioni della Convenzione quadro, che richiede specificamente ai Paesi industralizzati di fornire direttamente risorse per sostenere gli sforzi dei Paesi meno avanzati, sulla base di una "responsbailità storica e differenziata": chi ha inquinato di più si impegni di più per ripulire.
E invece tutto questo potrebbe passare al privato. Dopotutto si sta esternalizzando tutto, dal lavoro alla produzione. E Durban potrebbe essere il primo passo per esternalizzare persino gli impegni sottoscritti a livello internazionale.
lunedì 28 novembre 2011
L'ALBA DI DURBAN
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