lunedì 12 novembre 2012

Ricordando Barry


L'agricoltura italiana non può giocare in difesa e solo per la sopravvivenza

Negli anni 70 del ‘900 si è persa una grande occasione per dare una svolta al sistema socio-economico globale. Solo l'agricoltura, oggi, può sperimentare nuove forme di economia che ridisegnino lo scenario. Le riflessioni di Rossano Pazzagli dell'Università del Molise

di Alberto Grimelli


E' morto da poche settimane Barry Commoner, biologo e ambientalista, uno dei padri fondatori della cultura ambientale mondiale. Tra i più lucidi intellettuali del nostro tempo, nel 1971 mise in guardia l'umanità dalla dissennatezza che oggi stiamo vivendo, sulla nostra pelle: “La crisi ambientale è il segno sinistro di un inganno insidioso che sta nascosto nella tanto decantata produttività e nella ricchezza della moderna società basata sulla tecnologia.



Questa ricchezza è stata guadagnata con uno sfruttamento rapido, a breve termine, del sistema ambientale, ma ha contratto un debito sempre più grande con la natura... un debito così vasto e così diffuso che entro la prossima generazione potrà, se non pagato, cancellare la maggior parte della ricchezza che ci ha procurato..”


Abbiamo chiesto allo storico Rossano Pazzagli, docente di storia moderna e studioso del mondo rurale, di commentare queste parole.


Il cerchio da chiudere di Barry Commoner rappresenta ancor oggi un libro-caposaldo della cultura ambientale e l’invito a una visione diversa, realmente sostenibile, dell'economia e della società. Scritto quaranta anni fa è quantomai attuale, esattamente come attuale è lo studio I limiti dello sviluppo, anche conosciuto come Rapporto Meadows, pubblicato nel 1972 dal Club di Roma. In entrambi questi testi scientifici si dimostrava come la crescita economica non potesse continuare infinitamente a causa della limitata disponibilità di risorse naturali, specialmente petrolio, e della limitata capacità di assorbimento degli inquinanti da parte del pianeta. Quegli anni furono davvero molto fruttuosi sul piano scientifico e culturale. Non a caso sono anche gli anni dei movimenti giovanili, femministi e, appunto, ambientali. Sono anche gli anni della prima crisi petrolifera. Tutto questo contribuì ad accentuare l'attenzione sui temi posti da Commoner e dal Club di Roma. Vi furono molti progressi sociali ma, per quanto riguarda il modello di sviluppo, si scelse di percorrere comunque la via dell'economia speculativa contro quella di un'economia verde. La scienza stava dando indicazioni utili, ma la politica mondiale non l’ha seguita. Una lezione inascoltata.


Eppure oggi si parla molto di green economy e di sostenibilità ambientale


Se ne parla, ma sempre nell’orizzonte di un'economia speculativa e di un modello di sviluppo fondato sul mito del progresso e della crescita illimitata, del mercato globale come guida di tutto. Si tratta di un modello che ha creduto e crede che la tecnologia sia sempre e comunque in grado di sopperire a qualsiasi problema di scarsità di risorsa o inquinamento. Il vero problema, e ce ne stiamo accorgendo oggi più che mai, è che questo sviluppo è stato possibile solo a caro prezzo per l’umanità: al prezzo di forti diseguaglianze, nello spazio e nel tempo, che infatti sono foriere di tensioni geopolitiche molto forti, e al prezzo del consumo irreversibile di risorse fondamentali (fossili, acqua, suolo, ecc.). Una situazione insostenibile. E' per questo che ci dovremo abituare a nuovi stili di vita e di consumo, a nuovi modelli sociali ed economici. Questa è un'epoca di passaggio, e nelle epoche di transizione bisogna essere creativi.


Non sembrano però proporsi nuovi modelli culturali su cui fondare la società del domani

Solo apparentemente. Accanto all’attuale sistema economico, fondamentalmente capitalistico e neoliberista, si stanno sperimentando nuove forme di economia e di consumo. Solo che queste esperienze locali e diffuse contano poco, si tengono oscurate o si espongono come giocattoli. Parlo ad esempio dei mercati contadini, di modalità di scambio reciproco dei beni, de gruppo d’acquisto solidale, delle filiere corte. Quando le cose si complicano occorre riportarle a una dimensione più semplice. Bisognerebbe avere la capacità di passare dalla semplicità del globale alla complessità del locale.



Filiera corta e Km0. Per molti è solo utopia. Una visione autarchica e quindi vecchia della società



Chi pensa che la filiera corta e il Km0 siano solo forme autoarchiche ha una visione assai limitata di questo nuovo modello. In realtà si tratta di proporre un sistema economico di comunità che si basi, prima di tutto, sul valore d'uso del prodotto. Oggi, per dirne una, può accadere che un'acqua minerale tirolese venga venduta in Calabria e una calabrese nel Tirolo. Leggiamo sulle etichette la provenienza dei prodotti che mangiamo comunemente e proviamo a calcolare quanti chilometri si mangiano ogni giorno. Vengono fuori cifre sbalorditive: quella è tutta energia consumata, qualità perduta, identità cancellata. Il valore economico, il PIL e il profitto di pochi hanno preso il sopravvento sul valore d'uso dei beni, innescando processi speculativi che portano anche a grandi crisi nelle quotazioni delle derrate alimentari.



Dovremmo quindi rinunciare al commercio internazionale?


No, anche se in futuro non avremo alternative alla riduzione dei consumi, a partire da quelli energetici. Occorre una corretta integrazione tra economia locale e globale, un equilibrio tra produzione e consumo locale e le necessità di importazione di beni e servizi. Le nuove politiche mondiali, anche in tema di dazi e disincentivi a un'eccessiva importazione, vanno proprio in questa direzione. Occorre un mutamento culturale, operazione sempre complessa e di lungo periodo. E' necessario si torni a prendere consapevolezza del valore d'uso delle produzioni locali, acquistando da altre aree o nazioni soprattutto quanto necessario, utile o d'interesse che non sia reperibile in loco. Questo significa togliere importanza alle rendite e all’accumulazione finanziare, tornando a concentrarsi sull’economia reale. Il ruolo delle politiche pubbliche dovrebbe essere decisivo in tale direzione. L’ottica della crescita a tutti i costi ci spinge a consumare di più, invece in prospettiva dovremo consumare meno e meglio.


In questo contesto l'agricoltura che ruolo può giocare?


Un ruolo fondamentale. Il mondo agricolo e le aree rurali, a partire da quelle ingiustamente marginalizzate dallo sviluppo globale, possono essere la fucina dove sperimentare nuovi modi, nuove forme, nuovi comportamenti. Non potrebbe essere diversamente visto che l’agricoltura produce quanto ci è più necessario e vitale, ovvero il cibo, ed ha un elevato valore ambientale e culturale. La speranza è che anche in Italia si sia compreso questo passaggio storico, evitando di giocare in difesa. Non si può pensare a politiche che mirino alla sola sopravvivenza del settore. Anche il recupero di metodi e valori tradizionali non deve essere concepito come un ritorno all’agricoltura dei nonni, ma come innovazione supportata dal sapere e dalle conoscenze scientifiche.


Vede qualche speranza?

Sì. L'agricoltura industriale, ovvero quella specializzata e monocoltura, ha fatto il suo tempo. Necessita di input elevati, un grande fabbisogno energetico ed è la più esposta alle crisi dei prezzi. Per non parlare dei costi per la società. Questo modello di agricoltura non cura il territorio e l'ambiente, semplifica il paesaggio e scarica appunto i costi sulle generazioni future. Oggi l'agricoltura sostenibile e multifunzionale può essere molto più flessibile. La vera sfida è che la società civile si accorga dei vantaggi impliciti di avere un nuovo modello di agricoltura. E che la politica torni a mettere al centro agricoltura e territorio come vero capitale per il futuro. Nella pratica si comincia a vedere qualche segnale di rilancio di una neo-agricoltura contadina e comunitaria: penso alla coltivazione biologica delle mele a Castel del Giudice, un piccolo comune dell’alto Molise che nell’ultimo decennio ha saputo coniugare riuso del territorio e partecipazione popolare, o alla esperienza intrapresa qualche anno fa da una cooperativa di Schio e ripresa da alcuni GAS del Nord, dove abitanti della città finanziano opere di ricostruzione degli alpeggi per il pascolo, ottenendone in cambio carne e prodotti alimentari attraverso l’ideazione di una originale quanto sarcastica invenzione: i BOB, Buono ordinari bovini. Occorre ripartire dai territori e dal locale se si vuole stare da protagonisti nell’orizzonte globale.

Grazie per i commenti.

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