venerdì 16 maggio 2014

LA NUOVA AGRICOLTURA CHE AVANZA . LO SCHIAVISMO ANFETAMINICO

L’ovetto che aiuta a sop­por­tare la fatica costa appena dieci euro, al mer­cato nero dello schia­vi­smo pon­tino. Singh ha due pos­si­bi­lità: scio­gliere il con­te­nuto diret­ta­mente in bocca o mesco­larlo al chai, il tè dei sikh. Sce­glie la seconda per­ché «se lo man­gio fa più male, allo sto­maco e alla gola». Così, di prima mat­tina, quella che gli indiani di Bel­la­far­nia chia­mano «la sostanza» can­cella la fatica e i dolori del giorno pre­ce­dente e si pre­para ad affron­tare quello che sta per comin­ciare «dopato come un cavallo», come sostiene Marco Omiz­zolo, un gio­vane socio­logo che, con l’associazione In migra­zione, ha rea­liz­zato un dos­sier che è un j’accuse nei con­fronti di padron­cini e capo­rali del basso Lazio.
I tanti Singh dell’agro pon­tino – i nomi non sono di fan­ta­sia: i sikh reli­giosi por­tano tutti lo stesso cognome, che vuol dire «leone», men­tre le donne pren­dono l’appellativo Kaur, «prin­ci­pessa» — da que­ste parti lavo­rano quasi tutti nelle cam­pa­gne, a col­ti­vare ortaggi in maniera inten­siva, sotto il sole o in serre arro­ven­tate che si tra­sfor­mano in camere a gas quando ven­gono costretti a spruz­zare agenti chi­mici senza nes­suna pro­te­zione. Sot­to­po­sti ad anghe­rie e soprusi, sfrut­tati all’inverosimile, costretti a chia­mare «padrone» il datore di lavoro, sot­to­pa­gati e con il rischio di essere deru­bati della misera paga men­tre tor­nano a casa in bici­cletta. Come far fronte a tutto ciò? Rac­conta B. Singh in un ita­liano sten­tato: «Io lavoro dalle 12 alle 15 ore al giorno a rac­co­gliere zuc­chine e coco­meri o con il trat­tore a pian­tare altri ortaggi. Tutti i giorni, anche la dome­nica. Non credo sia giu­sto: la fatica è troppa e i soldi pochi. Per­ché gli ita­liani non lavo­rano allo stesso modo? Dopo un po’ ho male alla schiena, alle mani, al collo, anche agli occhi per via della terra, del sudore, delle sostanze chi­mi­che. Ho sem­pre la tosse. Il padrone è bravo ma paga poco e vuole che lavori sem­pre, anche la dome­nica. Dopo sei o sette anni di vita così, non ce la fac­cio più. Per que­sto assumo una pic­cola sostanza per non sen­tire dolore, una o due volte durante le pause dal lavoro. La prendo per non sen­tire la fatica, altri­menti per me sarebbe impos­si­bile lavo­rare così tanto in cam­pa­gna. Capi­sci? Troppo lavoro, troppo dolore alle mani».
Eccola qui, la nuova fron­tiera dello sfrut­ta­mento del lavoro migrante: gli schiavi delle cam­pa­gne ven­gono dopati per pro­durre di più e non sen­tire la fatica. Dall’inizio dell’anno, le forze dell’ordine hanno seque­strato tra Latina, Sabau­dia e Ter­ra­cina una decina di chili di sostanze stu­pe­fa­centi: «metan­fe­ta­mine», con­te­nute negli ovetti spac­ciati soprat­tutto dai capo­rali. Ma anche bulbi di papa­vero da oppio essiccati.
Nelle comu­nità sikh di Bel­la­far­nia e di Borgo Her­mada di tutto ciò si parla poco. I sikh, spe­cie se irre­go­lari, rara­mente denun­ciano i soprusi di cui sono vit­time. Se subi­scono una rapina fanno buon viso a cat­tivo gioco. Lo stesso accade quando il padrone non dà loro il dovuto o tarda nei paga­menti. Le dro­ghe sono proi­bite dalla loro reli­gione, chi ne fa uso è restio a par­larne e quando si decide a farlo non rie­sce a repri­mere il senso di colpa: «Noi siamo sfrut­tati e non pos­siamo dire al padrone ora basta, per­ché lui ci manda via. Allora alcuni di noi pagano per avere una sostanza che non fa sen­tire dolore a brac­cia, gambe e schiena. Il padrone dice lavora ancora, lavora, lavora, forza, forza, ma dopo 14 ore nei campi com’è pos­si­bile lavo­rare ancora? Per la rac­colta delle zuc­chine lavo­riamo pie­gati tutto il giorno. La sostanza ci aiuta a vivere e lavo­rare meglio. Ma non tutti lo fanno: solo pochi indiani la usano. Ma a loro serve per arri­vare a fine mese e por­tare a casa i soldi per la fami­glia», dice K. Singh. Quello delle dro­ghe sta diven­tando un vero e pro­prio pro­blema sociale, in una comu­nità coesa, orga­niz­zata, «ope­rosa e silen­ziosa», come la defi­ni­sce Omiz­zolo, che mi accom­pa­gna in un tour per i campi e i paesi di que­sto pezzo d’India ita­liana. Per defi­nirlo, ha coniato un neo­lo­gi­smo: «Punjitalia».
Il resi­dence Bel­la­far­nia mare ne è la capi­tale. A pochi metri dalle dune di Sabau­dia, lon­tano dalla vista delle ville dei vip, vive un pezzo della più nume­rosa comu­nità sikh dopo quella emi­liana di Novel­lara: 12 mila abi­tanti cen­siti uffi­cial­mente tra que­sto vil­lag­gio di seconde case per i vil­leg­gianti subaf­fit­tate agli immi­grati e l’edilizia low cost anni ’80 che già cade a pezzi e fa da con­torno al razio­na­li­smo fasci­sta di Borgo Her­mada, un pugno di abi­ta­zioni nelle cam­pa­gne di Ter­ra­cina. In realtà, con­tando gli “irre­go­lari”, le pre­senze aumen­tano deci­sa­mente: 30 mila, forse per­sino di più. La Flai Cgil è arri­vata a distri­buire ben 40 mila casac­che cata­ri­fran­genti ai lavo­ra­tori che si spo­stano in bici­cletta, per ten­tare di limi­tare i nume­rosi inci­denti stra­dali che li coin­vol­gono, soprat­tutto d’inverno, nelle strade di cam­pa­gna poco illuminate.
Omiz­zolo ha impie­gato anni per con­qui­starsi la fidu­cia della comu­nità, è andato con loro nei campi e ha com­piuto il per­corso migra­to­rio inverso, dall’Italia al Pun­jab, dove ha incon­trato le fami­glie di pro­ve­nienza e rian­no­dato i fili della dia­spora. Ha rac­colto le sto­rie di sfrut­ta­mento e, con il dos­sier dell’associazione In migra­zione, denun­cia che «per soprav­vi­vere ai ritmi mas­sa­cranti e aumen­tare la pro­du­zione dei padroni ita­liani» i lavo­ra­tori sikh «sono let­te­ral­mente costretti a doparsi con sostanze stu­pe­fa­centi e anti­do­lo­ri­fici che ini­bi­scono la sen­sa­zione di fatica». Si tratta, spiega, di «una forma di doping vis­suta con ver­go­gna e pra­ti­cata di nasco­sto per­ché con­tra­ria alla loro reli­gione e cul­tura, oltre a essere seve­ra­mente con­tra­stata dalla loro comunità».
«Eppure si tratta dell’unico modo per soprav­vi­vere ai ritmi di lavoro»: dodici ore al giorno a semi­nare, dis­so­dare, rac­co­gliere, spruz­zare veleni. Per quat­tro euro l’ora, nel migliore dei casi, spesso costretti a subire torti, anghe­rie e ves­sa­zioni dai datori di lavoro, a volte non pagati per mesi come sta acca­dendo a un gruppo di una tren­tina di lavoratori-schiavi che recla­mano un sala­rio che non arriva da sei mesi. Una situa­zione non dis­si­mile a quelle di Rosarno, della Capi­ta­nata e degli altri luo­ghi dello sfrut­ta­mento delle brac­cia in agri­col­tura. Solo più taci­turna, poco incline alla ribel­lione e meno visi­bile: i sikh non vivono in barac­co­poli o in rifugi di for­tuna e non arri­vano soli come molti afri­cani che sbar­cano a Lam­pe­dusa. Si spo­sano tra loro – anche se, mi spiega Omiz­zolo, comin­ciano a regi­strarsi i primi casi di matri­moni misti, in genere tra maschi sikh e donne rumene cono­sciute al lavoro nei campi — molti sono qui ormai da trent’anni e i loro figli sono ita­liani. Le abi­ta­zioni sono ben tenute, nono­stante accada che in qua­ranta metri qua­dri si ammas­sino fino a sei per­sone, i giar­dini sono in fiore. La dome­nica nel Gurd­wara Singh Saba, un ex capan­none agri­colo tra­sfor­mato in edi­fi­cio reli­gioso, è un trionfo di colori e nelle cucine comuni si fa da man­giare per tutti. Hanno anche un gior­nale, Pun­jab express, che trovo distri­buito davanti a un nego­zietto al cui interno un anziano col tur­bante attende pigra­mente i rari visitatori.
Dil­lon Singh è il capo della comu­nità: gesti­sce uno spac­cio di generi ali­men­tari che vende anche capi d’abbigliamento, nella piaz­zetta di Bel­la­far­nia. È un poli­tico – in India è stato molto vicino a Indira Gan­dhi, la pre­mier assas­si­nata da due guar­die del corpo sikh nel 1984 — e in que­sti giorni è inquieto per­ché il nuovo cen­tro reli­gioso, il cui pro­getto è affisso alle vetrate del tem­pio, si è bloc­cato. Que­stione di per­messi e varianti urba­ni­sti­che, ma soprat­tutto di intralci buro­cra­tici frap­po­sti dalla destra che regge il comune. È pre­oc­cu­pato per­ché dovrà dar conto alla comu­nità dell’utilizzo delle risorse rac­colte: «Abbiamo rac­colto i soldi ma non riu­sciamo ad andare avanti. Finirà che le per­sone tor­ne­ranno a man­dare le rimesse in Pun­jab invece di inve­stire i loro gua­da­gni in Ita­lia», osserva sconsolato.
Alla fine di feb­braio, nasco­sti tra i cas­soni di frutta e ver­dura tra­spor­tati da due indiani, i finan­zieri di Sabau­dia hanno tro­vato 6 chili di bulbi di papa­vero e 300 grammi di anfe­ta­mina. Altri tre chili e mezzo sono stati seque­strati nel baga­gliaio di un’auto ed è stata sco­perta per­sino una pic­cola pian­ta­gione di papa­vero da oppio a Ter­ra­cina. Chi gesti­sce il busi­ness? «Gli ita­liani danno la sostanza agli indiani, che a loro volta la ven­dono e danno i soldi agli ita­liani», spiega K. Singh. Vuol dire che a monte del traf­fico ci sareb­bero datori di lavoro che affi­de­reb­bero il lavoro sporco ai capo­rali, con­se­gnan­do­gli la «roba» per­ché a loro volta la ven­dano agli schiavi delle campagne.
In alcuni casi, però, a gestire la ven­dita al det­ta­glio sono diret­ta­mente «gli ita­liani». A soste­nerlo è H. Singh: «Cono­sco per­sone che usano que­sta sostanza. Le com­prano da ita­liani e loro la uti­liz­zano quando lavo­rano oppure la danno ad amici. La sciol­gono nell’acqua calda e poi la bevono. Si può anche man­giare ma fa male allo sto­maco e alla gola». Accade per­sino che, fiu­tata la pos­si­bi­lità di rita­gliarsi una torta del pic­colo busi­ness, alcuni lavo­ra­tori riven­dano a loro volta le dro­ghe acqui­state. Rac­conta S. Singh: «Alcuni indiani, soprat­tutto gio­vani che lavo­rano nelle cam­pa­gne, le com­prano per non sen­tire i dolori, però poi ne riven­dono una parte. Così fanno un po’ di soldi e allo stesso tempo la sera non si sen­tono stan­chi e pos­sono uscire. Da dove ven­gono que­ste sostanze? Alcuni le por­tano dall’India, altri le com­prano da ita­liani». Che in que­sto modo gua­da­gnano due volte, dallo spac­cio e dallo sfrut­ta­mento del lavoro.


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