I Comuni, un tempo strenui difensori degli usi civici, oggi costituiscono la più seria minaccia per i diritti dei cittadini sulle proprietà collettive.
È il segnale di un progressivo degrado civile, dove certa classe dirigente stenta a riconoscere l’identità delle comunità che amministra rinunciando a realizzare concrete condizioni di contesto per favorire la crescita economica. Troppo presa da ambiziosi programmi di opere pubbliche o a favorire gli appetiti dei privati, nell’ansia di fare cassa per finanziare qualunque tipo di attività o intervento senza effettive ricadute sulle economie locali, sfrutta le terre civiche ignorando regole e consuetudini condivise e consolidate nel corso dei secoli.
In nome di un decisionismo amministrativo che rischia di ipotecare irrimediabilmente il futuro delle comunità, ha messo mani e piedi su beni che non fanno parte del patrimonio comunale ma appartengono ai “naturali del luogo”. Eppure vi sono chiare disposizioni di legge che assegnano al Comune solo una funzione di ente amministrativo esponenziale della collettività proprietaria, incaricato di gestire il demanio civico nel rispetto delle sue peculiarità: la indivisibilità, l’inalienabililtà, l’inusucapibilità, la destinazione in perpetuo alle attività agro-silvo-pastorali, il valore paesaggistico e culturale.
Il fenomeno non è recente, ma negli ultimi anni diversi comuni hanno avviato di fatto una sistematica attività di sottrazione di boschi e pascoli alla disponibilità collettiva.
In questo senso, essi avrebbero dovuto provvedere all’adozione dei regolamenti per l’esercizio degli usi civici che disciplinano i diritti spettanti alle comunità locali; ma, nonostante la legge risalga al 1927, a tutt’oggi gran parte di essi ne è sprovvisto, impedendo in tal modo ai cittadini di poter esercitare i loro diritti.
E’ il caso avvenuto recentemente in Campania per il pascolo sulle terre collettive del Matese. Gli allevatori si sono visti rifiutare in un primo momento i contributi previsti dall’Unione Europea per coloro che si impegnano ad adottare tecniche agricole rispettose dell’ambiente, a causa di regolamenti poco chiari e certificazioni troppo vaghe rilasciate dai comuni. La protesta dei pastori ha costretto l’Assessorato regionale all’agricoltura ad “aggiustare” il caso, rinviando la soluzione definitiva del problema a una nuova legge regionale.
“Corruptissima republica, plurimae leges”, ci ricorda Tacito: saranno pure necessari alcuni adeguamenti normativi alla legislazione vigente, ma non sarebbe più utile e urgente, in questo momento, mettere in mora i comuni inadempienti ed esercitare, eventualmente, i poteri sostitutivi perché siano adottati questi regolamenti? Eh sì, perché quelli in vigore, nella maggior parte dei casi, non sono veri regolamenti ma disposizioni generiche,“appiccicate” all’interno dei piani di assestamento forestale (questi sì, adottati in molti comuni), utili solo a legittimare i tagli boschivi per incassarne i ricavi e finanziare addirittura le loro spese correnti.
Eppure la legge è chiara: “E’ fatto divieto ai Comuni di incamerare proventi derivanti a qualsiasi titolo dalla vendita dei prodotti dei terreni degli usi civici, ivi comprese le erbe e la legna eccedenti gli usi”. Piuttosto, tali risorse andrebbero destinate “al miglioramento e alle trasformazioni fondiarie e colturali, nonché al sostegno delle attività agro-industriali dell’impresa cooperativa costituita sulle terre stesse (…) ai fini di renderla tanto economicamente dinamica, quanto funzionale al suo ruolo propulsivo dell’economia agricola della zona” (art. 8 della l.r. 11/81).
Non sarebbe più utile e urgente, in questo momento, rivedere (e, magari, revocare) la delibera di Giunta regionale che consente di realizzare sulle terre collettive impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili, ivi compresi i parchi eolici, in nome dell’interesse o dell’utilità collettiva?
In proposito, uno strumento formidabile per eliminare ostacoli di natura urbanistica, ambientale, archeologica o paesaggistica è dato dalle ”conferenze di servizi”, nate per facilitare l’acquisizione, da parte di un organo della pubblica amministrazione, di autorizzazioni, permessi e nulla-osta di altri organismi pubblici, mediante convocazione di apposite riunioni collegiali. Troppo spesso questo strumento di semplificazione dei procedimenti amministrativi non garantisce appieno l’interesse pubblico né l’imparzialità dell’azione amministrativa; tantomeno assicura che le decisioni siano adeguatamente motivate.
Sono ben altre le prospettive future per gli usi civici rispetto al saccheggio in atto. I nuovi tempi vedono una ripresa dell’agricoltura in una chiave multifunzionale e le terre collettive potrebbero assumere un ruolo strategico nel quadro di uno sviluppo locale sostenibile, dove la dimensione economica si coniuga con quella culturale, ambientale e identitaria.
D’altra parte, nel nostro ordinamento giuridico l’istituto degli usi civici sta assumendo valenze diverse rispetto a quelle tradizionali del soddisfacimento dei bisogni delle popolazioni locali. Come ha osservato la Corte costituzionale, vi è un “interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici nella misura in cui essa contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio”.
Nicola Sorbo
Consigliere nazionale Slow Food Italia
Consigliere nazionale Slow Food Italia
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