Come mangiare bene grazie alla fame altrui
Alimentazione. Il problema non è la quantità di cibo, ma nell’accesso a quel cibo e in chi lo controlla
Approfondendo il tema «Nutrire il pianeta, Energia per la vita», lo slogan dell’Expo di Milano, le cose non quadrano e una cinica ipocrisia di fondo emerge chiaramente. Secondo il Word Food Programme nel mondo ci sono 805 milioni di persone che soffrono la fame: in particolare nei paesi in via di sviluppo un bambino su 6 è sottopeso. Nel contempo, grazie a comportamenti alimentari distorti, ci sono 1,5 miliardi di persone in sovrappeso e circa 500 milioni di obesi. Questi due estremi sono in realtà legati tra loro. La fame è al primo posto tra i fattori di maggior rischio per la salute ed uccide ogni anno più persone di Aids, malaria e tubercolosi messe insieme. Il sovrappeso invece, con le sue implicazioni cardiache e tumorali, è il principale problema sanitario nei paesi del cosiddetto primo mondo. Ad agevolare tale assurdità ci sono i cambiamenti climatici, i conflitti bellici e lo sfruttamento ambientale. Aggiungiamoci la vocazione predatoria del nostro capitalismo, in particolare l’uso indiscriminato delle risorse naturali e sociali, e possiamo tirare le somme.
Stando ai dati ufficiali, sul pianeta c’è già cibo a sufficienza per sfamare tutta la popolazione mondiale. La superficie agricola arabile a nostra disposizione (4,1 miliardi di ettari), cioè terreni sufficientemente fertili e con buone precipitazioni di pioggia, permetterebbe ad ogni essere umano di mangiare cibo per almeno 5.000 calorie al giorno: circa 8 piatti di pasta e fagioli per intenderci, un pasto semplice ma completo. La terra oggi coltivata basta anche per produrre fibre tessili, ottenere materiali da costruzione per uso abitativo e persino rimboschire una superficie grande 30 volte l’Italia. Sono cifre apparentemente incredibili che in realtà si ricavano incrociando i dati della Fao. Ad esempio, la produzione media annuale di cereali è di circa 2,4 miliardi di tonnellate, cioè quanto basta per alimentare il doppio della popolazione mondiale attuale, con circa mezzo chilo giornaliero di farina, riso o avena pro capite. In questo calcolo è inclusa anche la perdita di resa nel passaggio dalle granaglie al prodotto finito. Se aggiungiamo le produzioni di zucchero, latte, uova, frutta, verdura e oli vegetali, ossia prodotti utili per diversificare l’alimentazione, otteniamo che ogni bambino, anziano, migrante o rifugiato, potenzialmente disporrebbe di una dieta ipercalorica.
Alla luce di questi dati la povertà diventa un mero fatto politico e i luoghi comuni di economisti ed esperti risultano falsi: è falso l’argomento per cui gli Ogm incrementerebbero la produzione e risolverebbero il problema della fame; come anche il problema dell’esplosione demografica sul nostro pianeta dal punto di vista alimentare (che va risolto su altri livelli) e quello che destinando una minima parte delle attuali superfici coltivate a produzioni agricole non alimentari (quella per una «green economy» seria) si sottrarrebbe terreno all’alimentazione umana. Il problema non sta nella quantità, ma nell’accesso a quel cibo e in chi lo controlla. In primis, buona parte dei cereali prodotti a livello mondiale viene impiegata per produrre carne: ossia oggi il principale fattore climalterante. Un terzo delle produzioni agricole mondiali viene poi gettato durante le fasi commerciali: nella preparazione e confezionamento (pere e pesche ammaccate, patate di calibro e superficie «sbagliate», ecc.), nel condizionamento, nel trasporto e nello stoccaggio dei prodotti a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi di produzione. Alcune «scadenze» (senza generalizzare), inoltre, sono inventate solo per creare sprechi. Nel mondo si gettano circa 1,3 tonnellate di cibo ogni anno; una quantità 4 volte superiore a quella necessaria per sfamare la parte di popolazione affamata. Nel conto dobbiamo mettere anche i cosiddetti aiuti umanitari. Secondo la Fao circa un terzo di essi viene speso dai paesi donatori all’interno dei propri confini. Vale a dire che con la fame altrui molti ci mangiano.
Per tali motivi è bene che di queste cifre si parli poco, soprattutto in Italia, in vista dell’Expo e del suo slogan decisamente imbarazzante. Il problema dell’accesso al cibo rischia di acuirsi, invece che risolversi, se proseguono le attuali politiche delle multinazionali che faranno bella mostra di se a Milano, e dei governi compiacenti. Le risorse economiche messe insieme da Expo 2015 SpA, come hanno ricostruito Tiziana Barillà e Raffaele Lupoli per «Left», provengono anche da colossi industriali che millantano una sostenibilità ancora tutta da dimostrare. Molti di questi fanno finta di occuparsi dell’ambiente con una «green economy» solo di facciata. Per debellare la povertà e la fame a livello globale non serve piantare qualche albero in giro per il mondo o mettere pannelli solari sopra i capannoni industriali, se poi si continuano ad attuare comportamenti antisindacali come ha fatto la Fiat Crysler Automobiles di Sergio Marchionne con gli iscritti alla Fiom. La Coca Cola sta programmando di usare bottiglie di plastica biodegradabile: speriamo non lo faccia continuando a sfruttare i minori e le popolazioni povere o a sottrarre e inquinare l’acqua di falda ad interi villaggi indiani, come ha fatto in passato. In Colombia e in Guatemala, squadroni paramilitari hanno ucciso decine di sindacalisti solo perché tutelavano gli interessi degli operai. E cosa dire dell’Enel che continua a produrre energia elettrica da fonte nucleare in Slovacchia e in Spagna? Oppure di Intesa San Paolo che ha finanziato massicciamente l’esportazione di armi in passato? La Finmeccanica nel suo «Bilancio di Sostenibilità» del 2013 dichiara di aver adottato tolleranza zero rispetto al problema della corruzione (forse da dopo le consulenze di Valter Lavitola?); dice anche che non è coinvolta nella produzione di armi leggere e «controverse» (mine anti-uomo, bombe a grappolo, armi chimiche, ecc.) che causano la morte e migrazione di intere popolazioni coinvolte nei conflitti bellici: infatti una delle sue attuali produzioni di punta è il Meads, un sistema missilistico che intercetta e distrugge simultaneamente due bersagli provenienti da direzioni opposte.
La Nestlé, invece, con la «sua» attuale vocazione ambientalista, non è la stessa multinazionale che ha fornito gratuitamente il «suo» latte in polvere alle madri africane per indurle ad abbandonare l’allattamento al seno ricavandone enormi profitti? Salvo, come denuncia l’Unicef, generare enormi problemi di salute a quelle popolazioni. L’elenco è ancora lungo, ma non può che terminare con la Monsanto: la prima azienda ad aver brevettato sementi con la famosa Soia RR, dove la doppia erre sta per «Roundup Ready». La sigla indica che quei semi sono stati «adattati» al trattamento chimico (il Roundup) senza il quale non possono crescere e svilupparsi. Lo stesso ritrovato chimico che nel 1997 negli Usa veniva promosso come «biodegradabile ed ecologico». Produce inoltre l’ormone Bch per la crescita forzata dei bovini da macello, ritenuto da molti scienziati cancerogeno, e si dedica alla manipolazione genetica, brevettando sementi che si possono usare per un solo raccolto, determinando la famosa «tecnologia della morte» che priva le comunità agricole della loro secolare capacità di salvare i semi. Secondo approfonditi studi internazionali, solo in India, le politiche di queste multinazionali del cibo portano al suicidio un agricoltore ogni 30 minuti, per un totale, prendendo gli ultimi 16 anni, di oltre 250.000 contadini. Ecco cosa significa, da questo punto di vista, «nutrire il pianeta».
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